Quel che vi serve sapere: il Wakanda è sotto attacco delle forze armate dell’Unione Panafricana e parecchi membri del Clan della Pantera sono intrappolati nel Palazzo Reale circondato da un impenetrabile campo di forza.

Nel frattempo a New York il Leopardo Nero ha fatto la sua ricomparsa.

 

 

 

 

Di Carlo Monni

(con tanti ringraziamenti a Carmelo Mobilia e Mickey)

 

 

Capitolo 18

 

Sotto attacco

 

 

Upper West Side, Manhattan, New York City.

 

Il nome dell’uomo era Vlad Dinu ed ufficialmente era un imprenditore di successo immigrato dalla Romania ma era solo una facciata per nascondere la vera fonte della sua ricchezza: Vlad Dinu era il boss del crimine organizzato chiamato Vlad l’Impalatore e come l’antico governatore della Valacchia e della Transilvania da cui aveva preso il soprannome[1] era spietato e crudele, come aveva imparato a sue spese quasi chiunque si fosse messo sulla sua strada.

Quasi tutti perché l’uomo che gli stava di fronte adesso faceva decisamente eccezione.

Si faceva chiamare Leopardo Nero ed indossava un costume molto simile a quello della Pantera Nera ma più essenziale, per così dire. Da quando era comparso per la prima volta, a Harlem in molti si erano chiesti se i due non fossero in qualche modo collegati, del resto pantera era un altro nome per leopardo. La risposta avrebbe sorpreso più di uno.

<E così sei vivo.> disse Vlad ostentando calma poi si rivolse al figlio Nicolae <Pare che la tua killer abbia fallito.>

<Forse.> replicò il suo avversario <O forse c’è più di un Leopardo Nero e la tua killer ne ha semplicemente ucciso uno. Sia come sia, il mio messaggio è chiaro: non ti libererai tanto facilmente di me.>

La reazione di Vlad fu rapida quanto inaspettata: vibrò al Leopardo Nero un pugno all’addome che lo sbilanciò togliendogli il fiato.

Com’è possibile? Si chiese il Leopardo Nero. Con i suoi sensi affinati avrebbe dovuto sentir arrivare quel pugno quasi prima che Vlad muovesse la mano. Era stato più veloce di un uomo comune.

<Ti aspettavi che fossi un comune boss del crimine capace solo di dare ordini da dietro una scrivania, non è vero?> lo apostrofò Vlad <Beh, ti sbagliavi.>

Il Leopardo Nero riuscì a schivare un secondo colpo e bloccò un terzo afferrando i polsi del suo nemico che cercò subito di liberarsi. Era davvero più forte di quanto si era aspettato. Che fosse anche lui un superumano?

Lasciò la presa improvvisamente sbilanciando Vlad ed approfittando dell’occasione per sferrargli un paio di colpi al mento. Vlad barcollò all’indietro ma riuscì a rimanere in piedi.

<Notevole.> commentò il Leopardo Nero <Qualunque cosa volessi dimostrare, diciamo che l’hai dimostrata e finiamola qui.>

<Sarà finita solo quando tu sarai morto.> replicò Vlad <Ed anche se foste davvero più di uno, mi fermerò solo quando sarete morti tutti.>

<Un altro giorno, forse ma non oggi.>

Fece per dirigersi verso una finestra ed al tempo stesso Nicolae Dinu mise la mano sul calcio della pistola che portava sotto la giacca.

<Non provarci.> lo ammonì il Leopardo Nero <Te ne pentiresti.>

Vlad fece cenno al figlio di restare fermo e lui, sia pure malvolentieri, obbedì.

<Perché?> gli chiese in Rumeno Nicolae una volta che il Leopardo Nero fu sparito oltre la finestra.

<Innanzitutto perché è stupido sparare a qualcuno proprio in questo salotto con il rischio che lo sparo sia udito all’esterno e qualcuno chiami la Polizia.> rispose Vlad.

<I vetri sono insonorizzati e…>

<E poi quel tipo si è guadagnato il mio rispetto. Morirà, questo è certo, ma non per un banale proiettile nella schiena. Ora chiama quella tua Mrs. Montenegro. Ho ancora bisogno di lei.>

<Che intendi fare?> gli chiese la sua soci, la bionda Vera Kostantin.

Vlad fece un sorriso cattivo e rispose:

<Semplicemente chiudere alcuni conti.>

 

 

Palazzo Reale di Wakanda. Palestra.

 

Nella voce di M’Koni, sovrana del Wakanda e Pantera Nera in carica, si potevano cogliere rabbia ed amarezza mentre, rivolta all’uomo in armatura dorata davanti a lei, diceva:

<A questo, dunque, sei arrivato, George? Perché?>

<Tu e la tua nazione non mi avete lasciato scelta, Mary Quando ero qui ero disprezzato perché non wakandano. Anche tuo cugino T’Challa non aveva stima di me.> rispose il suo ex marito George Wheeler.

<Il Wakanda ti ha costretto a giocare indebitandoti fino al collo? Io ti ho in qualche modo incoraggiato a tradirmi? Sia io che T’Challa ti abbiamo offerto una seconda occasione e tu l’hai sprecata.>

<Non parlarmi così!>

<E come dovrei parlarti?  Non solo mi hai tradito ma ora ti sei messo con i nemici del mio paese. Cosa intendi fare adesso? Uccidermi? Ucciderai la madre di tuo figlio?>

Wheeler non rispose e tese il braccio destro.

 

 

Giardini del Palazzo Reale.

 

Lo scenario non era dei migliori. Guidata da una misteriosa donna inguainata in un attillato costume blu che le lasciava scoperto solo il viso una squadra delle forze d’assalto della Federazione Panafricana era riuscita a superare le difese del Palazzo Reale e stava tenendo sotto mira S’Yan, membro della famiglia reale, e la Regina Vedova Ramonda.

Quando tutto sembrava senza speranza, all’improvviso era balzato giù da un albero un uomo vestito di una variante del costume della Pantera Nera che gli lasciava scoperta la parte inferiore del volto ornato da una corta barba ed aveva afferrato la sconosciuta per un polso.

<Khanata!> esclamò Ramonda riconoscendolo.

La sua avversaria lo fissò e disse:

<Sì: sei proprio il Principe Khanata ma Askari avrebbe dovuto occuparsi di te.>

<Ha fallito, proprio come accadrà a te.> replicò Khanata.

<Non è ancora detto.> ribattè l’altra.

Con una rapida mossa si divincolò e si allontanò di qualche metro.

<Suppongo che ora dovremmo batterci e stabilire in un leale combattimento chi di noi due è il migliore e merita di vincere.> disse <Peccato che non andrà così. Se non ti arrendi immediatamente, darò ordine di uccidere S’Yan e la Regina. Per quanto tu possa essere in gamba, da solo non potrai fermarli tutti.>

In quel momento si udì un sibilo ed una lancia si conficcò nella schiena di uno dei soldati trapassandolo letteralmente da parte a parte. Subito dopo una freccia ne abbatté un altro.

Khanata sorrise e replicò:

<Chi ha detto che sono solo?>

 

 

Harlem, Manhattan, New York City.

 

Seduto ad uno dei tavoli dell’Harlem Club Abe Brown sorseggiava un drink mentre sul palco Monica Lynne stava finendo di cantare “Georgia on my mind”. Abe accennò un sorriso.

<Tutto solo stasera, bell’uomo?>

A parlare era stata una donna afroamericana molto attraente che poteva avere una qualunque età tra i trenta ed i quarant’anni ed indossava un abito scuro aderente e senza maniche che le arrivava appena sopra il ginocchio.

<Mi piace questo posto, Mrs. Toomey.> rispose Abe.

<Tanto da venire fin dal Bronx?> ribattè Shauna Toomey sedendosi davanti a lui senza aspettare inviti.

<Come ho detto, mi piace questo posto. È elegante ma non troppo, il barman sa fare degli ottimi drink e poi posso ascoltare della buona musica dal vivo.>

<E da quanto ho capito, sei… diciamo… un estimatore della nostra cantante.>

Proprio in quel momento Monica attaccò una sua versione di “My man” nell’arrangiamento di Billie Holliday.

<È brava.> si limitò a commentare Abe.

<È molto di più. Sarebbe stato uno spreco del suo talento se fosse diventata la regina del Wakanda. Ma a te interessa forse in un altro senso?>

<E se anche fosse, perché dovrebbe interessare lei, Mrs. Toomey?>

<Chiamami Shauna. Se vuoi proprio saperlo, ho sempre avuto un debole per i tipi come te: duri come l’acciaio all’esterno ma con il cuore tenero.>

<E tuo marito sa di questa tua predilezione? Cosa ne pensa?>

<John è troppo occupato dai suoi affari per occuparsi di come passo il mio tempo. Anche adesso è fuori proprio per uno degli affari di cui ti dicevo.>

John James Toomey non era solo il gestore del club, era il secondo in comando di Boss Morgan, il signore del crimine di Harlem. Abe lo sapeva bene ed era certo che qualunque affare stesse trattando in questo momento, era quasi certamente qualcosa di poco pulito.

 

 

Manhattan, New York.

 

Il rumore del suo atterraggio sul tettuccio dell’auto non era stato praticamente avvertito all’interno e l’agile ragazza di colore dal succinto costume rosso con una mascherina domino a coprire parte del volto sorrise. Ora si trattava solo di restare salda sul tettuccio ed aspettare.

L’attesa non fu troppo lunga. L’auto imboccò l’ingresso di un piccolo aeroporto privato che indubbiamente doveva servire a Boss Morgan per i suoi loschi traffici o, come in questo caso, per far uscire qualcuno dagli Stati Uniti clandestinamente.

A quel punto fu inevitabile che la donna di nome Okoye fosse notata dal personale di servizio.

Senza perdere tempo la ragazza balzò agilmente dal tettuccio e stese uno degli uomini armati davanti a lei con un calcio alla mascella.

Mentre stava per toccare terra sentì un click inequivocabile alle sue spalle e si abbassò. Il primo proiettile le passò sopra la testa e colpì in pieno petto uno degli uomini davanti a lei, gli altri andarono semplicemente a vuoto.

A sparare erano stati l’autista della limousine ed un africano di grossa stazza che Okoye riconobbe come Jerik, la guardia del corpo di Bridget Hapanmyas, il suo bersaglio.

Nella mano destra di Okoye apparve quasi come per magia un pugnale che lei lanciò con maestria cogliendo l’autista alla gola.

Prima che potesse rialzarsi, però, Jerik le fu addosso e le strinse la gola.

<Ti ucciderò!> le disse in Swahili.[2]

 

 

Sede del Wakanda Design Group, poco fuori i confini della capitale.

 

Ishanta era uno dei membri più anziani ancora in vita della Famiglia Reale del Wakanda.  Ai suoi tempi era stato un uomo d’azione, perfino una delle Pantere Sostitute, ma quei tempi erano passati: aveva messo su pancia e doveva usare gli occhiali, non aveva, però, perso lo spirito.

Quando le squadre delle truppe speciali della Federazione panafricana guidate da Raoul Bushman in persona invasero il complesso industriale di cui era a capo lo trovarono ad attenderli seduto alla sua scrivania.

<Bushman, vecchio bastardo, vedo che non ti hanno ancora ammazzato.> disse.

<Vedo che non ci sono riusciti nemmeno con te, vecchio idiota.> ribattè Bushman con un sorriso cattivo reso ancor più inquietante dal tatuaggio a forma di teschio che gli ricopriva il volto.

<Trent’anni fa non avresti osato parlarmi così.>

<Non esserne troppo sicuro, vecchio. Ora lasciati legare senza opporre un’inutile resistenza. Questa fabbrica ora è sotto il controllo della Federazione Panafricana come presto lo sarà tutto il Wakanda.>

<Non ne sarei così sicuro al posto tuo.>

Ishanta premette un pulsante sulla scrivania che fu subito circondata da una barriera rilucente.

<Ma cosa…?> esclamò Bushman.

Fu la volta di Ishanta di sorridere mentre replicava:

<Un comune campo di forza elaborato dai miei ingegneri… i migliori del mondo.>

Bushman ed i suoi soldati spararono ma i proiettili si infransero sul campo di forza. Ishanta continuò:

<Ho anche avviato un meccanismo di autodistruzione. Tu e le tue truppe avete meno di 15 minuti per allontanarvi prima che tutto esploda. Addio Bushman.>

La sezione di pavimento sotto la poltrona di Ishanta cominciò a scendere rivelandosi come una sorta di ascensore.

Bushman non perse tempo. Sapeva bene che i membri del Clan della Pantera non facevano mai minacce a vuoto.

<Usciamo di qui, presto!> ordinò.

Poco meno di 15 minuti dopo l’intero complesso esplose.

 

 

Harlem, New York City.

 

Il Leopardo Nero raggiunse furtivamente la finestra che dava nella camera da letto dell’appartamento dell’assistente sociale Thomas Chalmers e vi entrò non visto.

Una volta dentro si tolse la maschera rivelando il volto di T’Challa, ex re del Wakanda ufficialmente defunto ma che aveva in realtà iniziato una nuova vita proprio con l’identità di Thomas Chalmers oltre che come Leopardo Nero.

Doveva ammettere con se stesso di trovare stimolante lavorare per il bene della povera gente oltre che come supereroe urbano.

Si chiese cosa ne pensasse Okoye. Omoro, il capo dei servizi di sicurezza del Wakanda, l’aveva mandata a New York per tenerlo d’occhio, come se lui avesse veramente bisogno di un angelo custode. In fondo il vecchio Omoro era un sentimentale. Il pensiero strappò a T’Challa un sorriso.

Quanto ad Okoye, T’Challa aveva la sensazione che cominciasse anche lei a prenderci gusto a recitare il doppio ruolo di impiegata in un centro di assistenza per donne maltrattate di giorno e vigilante mascherata di notte anche se quasi certamente non lo avrebbe mai ammesso.

Chissà dov’era in questo momento? In cerca di guai o più probabilmente a procurarli a qualcun altro.

 

 

Un piccolo aeroporto privato a Manhattan, New York.

 

Jerik incombeva su di lei come una montagna umana di grasso e muscoli. Ancora un po’ e le avrebbe spezzato la trachea. Okoye sapeva di non dover perdere tempo. Non tentò neppure di spezzare la stretta. Era fin troppo consapevole di non poterci riuscire, invece usò il taglio di entrambe le mani per colpire il suo avversario in un punto vicino alle orecchie che dal suo addestramento come Dora Milaje sapeva essere molto sensibile. Jerik gridò e istintivamente si portò le mani alle orecchie. Okoye ne approfittò per sferrargli una ginocchiata all’inguine e lui non poté che piegarsi in posizione fetale dal dolore, un successivo calcio al mento lo spedì nel mondo dei sogni.

Okoye si avvicinò al cadavere dell’autista per recuperare il pugnale ancora conficcato nella sua gola quando si udì una voce maschile:

<Bello spettacolo, ma ora vogliamo vedere se sei più veloce di un proiettile?>

John James Toomey era sceso dalla limousine ed ora le stava puntando contro la sua pistola.

 

 

In volo verso Wakanda.

 

C’era un solo modo per definire quello che stava provando Shuri in quel momento: un misto di rabbia e frustrazione.

La più giovane dei figli del defunto Re T’Chaka era di ritorno da Lycopolis, la città dei lupi mannari, capitale dell’autoproclamato Stato Autonomo di Arcadia dove si era recata come inviata personale di sua cugina M’Koni[3] quando era stata raggiunta dalle notizie dell’invasione. Tutti i tentativi di mettersi in contatto con il Wakanda erano falliti: c’era un blackout delle comunicazioni opera sicuramente del nemico.

Dopo una breve riflessione, decise che c’era una cosa che poteva fare.

Sul display del suo telefono di ultima generazione apparve un volto deturpato da cicatrici simili a scaglie. L’occhio sinistro era coperto da qualcosa che assomigliava al monocolo dei gioiellieri.

<Dottor Crocodile…> iniziò a dire Shuri.

<Preferisco essere chiamato Presidente N’Dingi o anche Dottor N’Dingi ma vista la tua giovane età e la tua… impetuosità, perdonerò la tua scortesia, Shuri.> replicò Joshua N’Dingi, Presidente della Federazione Panafricana.

<Non siamo qui per discutere di etichetta, tu hai invaso il Wakanda.>

<Una misura spiacevole ma necessaria. Dovevo agire prima che il tuo paese decidesse di intervenire al fianco dei miei nemici.>

<I nostri alleati che tu hai proditoriamente attaccato, ma con il Wakanda ti romperai i denti. Noi non ci arrenderemo mai e tu fallirai come chiunque altro che ha provato a conquistarci.>

<Questo è da vedersi. Intanto ti consiglio di guardare fuori dal finestrino. I miei caccia hanno circondato il tuo aereo. Se non ti arrendi, lo ridurranno in cenere.>

Shuri serrò le labbra reprimendo un insulto.

 

 

Palestra del Palazzo Reale di Wakanda.

 

Quello che si stava svolgendo in quel momento era un dramma familiare. Decisamente atipico.

 

Nella mente di George Wheeler passarono rapidamente immagini della vita felice con sua moglie e suo figlio seguite da quelle dei suoi fallimenti come marito, come padre e come uomo. La determinazione che lo aveva sostenuto fino ad allora cominciò a vacillare. Avrebbe mai più potuto guardare negli occhi suo figlio se davvero gli avesse ucciso la madre?

Esitò e questo fu sufficiente a M’Koni per fare la sua mossa. Con un balzo acrobatico si gettò verso l’alto. Le sue gambe si strinsero a forbice al collo dell’uomo che aveva amato in quella che ormai le sembrava un’altra vita e lo trascinò al suolo. Non era un’esperta combattente come alcuni dei suoi cugini ma in quell’ambiente ristretto era lei ad avere il vantaggio ed era decisa ad approfittarne.

Mentre Wheeler faticava a rimettersi in piedi, lei si era già rialzata ed aveva applicato all’armatura quello che sembrava solo uno dei tanti ornamenti della sua cintura.

Ma cosa…?> esclamò Wheeler.

<Un regalino di T’Challa.> spiegò M’Koni <Sta spegnendo uno dopo l’altro i sistemi della tua armatura iniziando da quelli offensivi per finire con quelli di supporto vitale. Una difesa nel caso di furto di un’armatura da parte di qualcuno come te.>

L’armatura si aprì di scatto e l’uomo all’interno cominciò ad uscirne.

<Non ho bisogno di nessuna armatura per sistemarti.> disse <Sono più grosso, più forte e più allenato di te.>

M’Koni non rispose ma socchiuse gli occhi.

 

 

Aeroporto internazionale di Birmin Zana, capitale del Wakanda.

 

Patrick McKenna era decisamente frustrato. Aveva aspettato troppo per lasciare il Wakanda ed ora non era più possibile: il paese era sotto attacco e tutti i voli erano stati cancellati. Certo, esistevano altri modi per lasciare quella zona, strade clandestine che lui, da scafato contrabbandiere qual era, conosceva bene ed allora perché non aveva ancora provato ad usarle? Era riluttante ad ammetterlo ma forse c’entravano i begli occhi, per tacere del resto, di Jane Mahoney. Che stupidaggine, si disse, la ragazza aveva meno della metà dei suoi anni.

Le sue riflessioni furono interrotte dall’arrivo di una ragazza in sahariana verde e calzoncini. In testa aveva un cappello a larghe tese e gli occhi erano nascosti da occhiali da sole.

<Ma guarda un po’ chi c’è!> esclamò la ragazza <Patrick McKenna, uno dei più famigerati trafficanti d’armi di tutta l’Africa subsahariana.>

<Ci conosciamo, Miss…> chiese, perplesso, McKenna.

<Kitty Walker, corrispondente dell’United Press ed altre agenzie giornalistiche per quest’angolo di mondo.>

<Walker? Il nome non mi è nuovo. Ho conosciuto un Kit Walker diversi anni fa ma era un uomo.>

<Mio padre probabilmente ma non parliamo di questo. Sono più interessata a sapere cosa ci fa lei qui proprio in questo momento. Non mi risulta che il Wakanda abbia bisogno di gente come lei per rifornirsi di armi.>

<Premesso che io sono solo un onesto mediatore, potrei risponderle, Miss Walker, che non sono affari suoi.>

Prima che la ragazza potesse replicare, l’attenzione di entrambi fu attratta da rumori provenienti dall’alto.

Alzarono gli occhi e videro un jet che stava piombando a tutta velocità verso una delle piste d’atterraggio inseguito da aerei più piccoli che lo stavano bersagliando di colpi apparentemente senza molta fortuna.

<Ma che…?> esclamò McKenna.

Il jet riuscì ad eseguire un atterraggio d’emergenza non troppo distante da loro, abbastanza da poter distinguere le insegne di un volo di stato del Wakanda. Gli inseguitori, dal canto loro, avevano le insegne dell’aviazione militare panafricana.

<Questa sì che è una notizia che interesserebbe la sua agenzia, Miss Walker.> disse McKenna.

Si accorse, però, che la ragazza era scomparsa.

Si chiese dove potesse essere finita, poi si diresse verso l’aereo. Nonostante il botto che aveva fatto era abbastanza intatto ma anche i suoi inseguitori stavano atterrando decisi a finire il lavoro.

Il buonsenso suggeriva di starsene lontani, ma McKenna decise comunque di andare a vedere. Che stesse sviluppando una coscienza? Il pensiero lo fece sorridere.

 

 

Palazzo Reale del Wakanda.

 

La ragazza vestita di nero si chiamava Nakia, ma dopo essere stata espulsa dai ranghi delle Dora Milaje per aver tentato di uccidere Monica Lynne in un impeto di gelosia[4] aveva assunto il nome di battaglia di Malizia ed era diventata una mercenaria al servizio del miglior offerente. Quando Raoul Bushman le offrì di entrare nella sua squadra speciale della Federazione Panafricana non aveva esitato ad accettare. Azione, avventura, una paga molto buona e la possibilità di vendicarsi del Wakanda che le aveva voltato le spalle: cosa poteva chiedere di più?

Alla fine era arrivata in Wakanda ed aveva dimostrato alle sue ex compagne che era più in gamba di loro, inaspettatamente, però, era stata M’Koni a sconfiggerla e questo le bruciava. Avrebbe ritrovato M’Koni, l’avrebbe sfidata di nuovo e stavolta l’avrebbe uccisa.

Le sue fantasticherie furono interrotte da una voce irosa alle sue spalle:

<Dove credi di andare, traditrice?

Malizia si voltò e si trovò di fronte, Ayo, attuale leader delle Dora Milaje. Anche lei si era ripresa ed era decisamente arrabbiata.

<Qualunque cosa tu voglia fare, io te la impedirò.> proclamò.

Nakia fece un sospiro e ribatté:

<In nome della nostra antica amicizia, ti chiedo di non provarci. Non ho alcun desiderio di ucciderti, non costringermi a farlo.>

<Tranquilla, non lo farai, sarò io ad uccidere te.>

Senza aggiungere altro Ayo si scagliò contro Nakia brandendo la sua lancia con entrambe le mani.

 

 

Birmin Zana, fuori dal Palazzo Reale.

 

W’Kabi era sempre stato un uomo d’azione e l’attuale situazione non era certo adatta a migliorare il suo umore già abbastanza cupo di suo.

<Possibile che non riusciamo ad abbattere questo dannato campo di forza?> esclamò per l’ennesima volta.

<I nostri tecnici ci stanno lavorando e prima o poi ci riusciranno.> gli rispose il Primo Ministro Taku.

<Me lo ho già detto un quarto d’ora fa.>

<E te lo ripeterò tra un altro quarto d’ora se necessario. L’impazienza non ci porta a nulla.>

<Se lo dici tu. I nostri nemici ci hanno preso nel momento più vulnerabile, dopo la crisi del Leone Nero e non solo si sono infiltrati nella nostra capitale senza che ce ne accorgessimo ma hanno anche isolato il Palazzo Reale ed interrotto le comunicazioni. Le nostre forze armate, di cui io sono il capo, sono isolate e senza ordini.>

<Il tuo pessimismo mi sorprende sempre, vecchio amico. Dimentichi che prima di diventare Primo Ministro sono stato Ministro delle Comunicazioni? Avevo previsto un’eventualità simile e preparato una contromisura. Prepara i tuoi ordini, W’Kabi. I nostri avversari stanno per avere una brutta sorpresa.>

 

 

Upper West Side, Manhattan, New York City.

 

Vlad Dinu entrò nella sua lussuosa villa in arenaria e chiamò:

<Angela! Gabe! Sono tornato!>

<La signora ed il bambino non sono qui, signore.> gli disse il maggiordomo.

<Non sono qui? E dove sono?>

<Mi dispiace, Signore, ma non lo so. Poche ore dopo il suo… ehm… arresto… la signora ha riempito un paio di valigie, ha chiamato un taxi e se n’è andata con il Signorino Gabe.>

Vlad rimase silenzioso ma il suo sguardo diceva molte cose.

Quella stupida troia aveva osato abbandonarlo portandosi dietro suo figlio… suo figlio.

Nessuno poteva fare uno sgarbo simile a Vlad l’Impalatore senza subire la sua vendetta. Angela lo avrebbe capito presto,

 

 

CONTINUA

 

 

NOTE DELL’AUTORE

 

 

            Poco da dire, tutto sommato. Se qualcuno di voi, miei scarsi lettori si sta facendo domande su Kitty Walker, potrebbe avere risposte nel prossimo episodio in cui molti nodi verranno al pettine.

 

 

Carlo

Walker, potrebbe avere risposte nel prossimo episodio in cui molti nodi verranno al pettine.



[1] E che noi conosciamo anche come Conte Dracula.

[2] Lingua principale dell’Africa Centrale.

[3] Vedi Power Pack #30,

[4] Su Black Panther Vol. 4°#12 (in Italia su Cavalieri Marvel #12).